Spesa alimentare un po' più cara per gli italiani con il prezzo del burro che è raddoppiato nell’ultimo anno (+113%) per l’aumento della domanda dovuta al riconoscimento di positive proprietà salutistiche, soprattutto in alternativa a grassi come l’olio di palma che un numero crescente di grandi gruppi industriali sta abbandonando. E’ quanto emerge da un'analisi nell’ultima seduta della Borsa di Milano con un picco alla produzione di 5,04 euro al chilo per il burro pastorizzato nazionale che ha raggiunto il massimo da almeno cinque anni.
Il burro sta riacquistando popolarità ed è tornato ad essere uno dei grassi più usati in cucina per i suoi molti suoi punti di forza: a differenza delle margarine infatti
Un ritorno che ha favorito il balzo delle quotazioni, dopo quelle insostenibili del passato per gli allevamenti, che riguarda in realtà, tutti i prodotti lattiero caseari, dalla panna alla crema di latte, dal formaggio al latte spot che alla Borsa di Lodi, principale piazza di riferimento per il nord Italia, ha toccato i 45,36 centesimi al litro, il valore più alto dal 2014, con una crescita di quasi il 27% rispetto all’agosto del 2016. Un segnale importante per salvare le stalle italiane dopo l’obbligo di indicare in etichetta l’origine entrato in vigore in Italia sotto il pressing di Coldiretti lo scorso 19 aprile 2017. A pesare è la riduzione delle importazioni di olio di palma per uso alimentare che sono calate in Italia del 51% nei primi cinque mesi del 2017, con sei italiani su dieci che evitano di acquistare prodotti alimentari che contengono olio di palma, a conferma della diffidenza che sta portando un numero crescente di imprese ad escluderlo dalle proprie ricette. La riscossa del burro nella spesa alimentare di diverse famiglie italiane è peraltro giustificata da recenti studi scientifici, che hanno fatto cadere pregiudizi nei confronti di un prodotto che viene oggi percepito come più naturale e salutare con l’incremento della domanda di alcuni Paesi a partire dalla Cina. I consumi procapite di burro sono aumentati nel 2016 dall’Australia (23%) al Canada (+7%) fino agli Stati Uniti (+2%) dove l’USDA prevede per quest’anno un aumento del consumo mondiale di burro del 3% Tra i maggiori consumatori mondiali c’è la Nuova Zelanda con 6,13 chili seguita dall’Unione Europea con 4,71 chili, ma livelli elevati si registrano anche in India con 3,91 chili e negli Stati Uniti con 2,63 chili. Al contrario la produzione di burro in calo del 6% nei primi cinque mesi del 2017 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno in Europa dove si estende la carestia.
L’inversione di rotta su latte e burro avviene in un contesto produttivo che negli ultimi dieci anni ha visto praticamente dimezzato il numero di stalle presenti, tanto da aver raggiunto il minimo storico di 30mila allevamenti, rispetto ai 60mila attivi nel 2005. Un fenomeno causato dal crollo del prezzo pagato agli allevatori che è sceso per lungo tempo addirittura al di sotto dei costi di alimentazione del bestiame. Una situazione insostenibile che richiede una decisa inversione di tendenza, poiché da salvare ci sono i 120mila posti di lavoro nell’attività di allevamento da latte che generano lungo la filiera un fatturato di 28 miliardi, la voce più importante dell’agroalimentare italiano dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista dell’immagine del Made in Italy. Sono 488 i formaggi tradizionali censiti dalle Regioni che si aggiungono ai 49 a denominazione di origine protetta (Dop) riconosciuti dall’Unione Europea, ai quali è destinato circa la metà del latte consegnato dagli allevamenti italiani. Ma la chiusura di una stalla non significa solo perdita di lavoro e di reddito, ma anche un danno ambientale con quasi la metà degli allevamenti italiani che si trova in zone montane e svantaggiate e svolge un ruolo insostituibile di presidio del territorio dove la manutenzione è assicurata proprio dal lavoro silenzioso di pulizia e di compattamento dei suoli effettuato dagli animali.