3 Marzo 2024

Intervista all’enologo Riccardo Cotarella, presidente di Assoenologi

Il mondo del vino ha sempre rappresentato un universo affascinante per i giovani che vogliono intraprendere una carriera nel mondo dell’agricoltura. Quando si pensa al vino in Italia, al mondo dell’enologia più in particolare, il primo nome che viene alla mente è quello della Famiglia Cotarella; più nello specifico quello di Riccardo Cotarella.

Cotarella, classe 1948, è uno dei più autorevoli enologi del panorama internazionale e dal 2013 è il presidente di Assoenologi, la più importante associazione di enologi ed enotecnici italiani che nel 2021 ha compiuto 130 anni. Un uomo rivoluzionario che che ha saputo rivisitare il vino guardando al futuro senza dimenticare le sue origini ma valorizzandone peculiarità.

I nostri giovani sono stati ospiti all’interno della tenuta della Famiglia Cotarella, a Montecchio in Umbria, per realizzare un’intervista sul mondo del vino e del rapporto dei giovani e la tecnologia con questo settore.

“Se lei oggi avesse 30 anni cosa farebbe?”

“Farei lo stesso percorso di studi e professionale, però mettendo l’esperienza che ho assunto. Mi specializzerei su alcuni momenti più accattivanti e interessanti che la viticoltura e l’enologia ti possono dare, in primis la cura della pianta che è una cosa indispensabile. Saper gestire la vite, in modo tale che ti dia il miglior prodotto, perché comunque sia il lavoro dell’enologo inizia in vigna. Uva sana e buona e vino buono. Io dico sempre che il vino è una “droga” mentale, perché ti fa dimenticare a volte di andare in vacanza, ti permette di stare in famiglia, di girare, perché oltre a fare vino tu conosci persone che fanno vino. L’obiettivo è unico, fare dei grandi vini ma con metodi e ambienti diversi”.

“Oggi come ci si rende veramente distintivi nel mondo del vino?”

“Sono tantissimi gli elementi che possono permettere una distinzione. Da un punto di vista della qualità dei vini il distinguersi significa dare spazio all’elemento più rappresentativo che è il territorio. Dire che questo vino è un Sangiovese, sì ma di dove? Di quale parte della Toscana? Perché ogni territorio a volte anche in spazi piccoli esprime un suo carattere. Il vino non è un prodotto naturale, deriva dall’uva ma è opera dell’uomo. Quindi l’uomo ha il possesso delle parti più importanti, specialmente l’enologo e l’agronomo, per far sì che il vino sia sempre delle migliori qualità e rispetto dell’ambiente”.

“Secondo lei in futuro quello che oggi è un “difetto” del vino potrà diventare un valore aggiunto?”

“Un vino non deve essere difettoso, noi enologi abbiamo un compito, ovvero quello di rispettare la tracciabilità di un vino ma di esaltare le caratteristiche che derivano dall’uva. Ripeto, il nostro obiettivo di enologi è quello di fare dei vini molto buoni. Non ci dimentichiamo che i vini “naturali” erano degli anni 40 e 50, dove il vino italiano non esisteva. Esisteva un liquido, una bevanda. Oggi il vino non è una bevanda, ma una sorgente di cultura e come tale deve dimostrare tutti i suoi pregi e non i suoi difetti”.

“Secondo lei come impatterà l’intelligenza artificiale nel suo ruolo da enologo?”

“Il vino ha bisogno di passione artificiale, ammesso che esista. Il vino non è una formula, non si può computerizzare. Ci sono 1000 sfaccettature che influenzerebbero il risultato finale. Il vino vuole sentire il cuore e l’anima di chi gli sta vicino e di chi lo cura. Mi sembra, fino a prova contraria, che quella bella persona che parla a nome dell’intelligenza artificiale non abbia né un cuore né un’anima e quindi penso che sarà ben difficile trovare spazio nei nostri programmi di produzione. Potrebbe trovarlo nella comunicazione ma anche in questo settore ci vuole molta personalità, molto pathos per dare al consumatore, a chi ti sente, a chi ti ascolta quella passione che soltanto una persona fisica può esprimere. Quindi, non la vedo bene per l’intelligenza artificiale, non troverà spazio almeno fino a quando il vino farò parte della cultura e della passione dell’uomo e della donna”.

“Se si trovasse davanti tantissimi giovani che vogliono scegliere il loro futuro, indipendentemente dal settore vitivinicolo, quale consiglio si sentirebbe di dare?”

“Il consiglio è di prenderla con serietà ma anche con un certo ottimismo questa professione, perché chiede impegno, chiede sacrificio specialmente all’inizio e chiede di approcciarsi anche ai lavori più umili, perché l’enologo oggi è un manager, non è soltanto un tecnico. Segue il commerciale, la comunicazione e prima di essere un manager deve essere gestito da altre persone che prima gli hanno trasmesso l’esperienza. Chi ha questa passione è bene che la esplichi, la pratichi, perché sarà ricca di soddisfazioni”.

“Nei prossimi anni il settore vitivinicolo potrà garantire comunque un reddito adeguato per i tanti giovani che vorranno intraprendere questa attività?”

“Oggi non c’è nulla di garantito perché l’economia mondiale e di conseguenza anche quella del vino è influenzata da moltissimi fattori: le guerre, le questioni sociali… quindi nulla è garantito, però ci sono i presupposti perché questo settore può dare le sue soddisfazioni a chi lo pratica con passione. Il vino è un prodotto a lenta evoluzione e anche a lento rientro di soddisfazioni, quindi step by step devi assaporare sempre quella piccola cosa che ti dà, immagazzinarla, perché ogni giorno ti darà qualcosa di più. Ai futuri enologi dico sempre “Non vi aspettate dalla mattina alla sera di diventare numero 1, neanche numero 2, non sarete neanche in classifica, però dipende da voi come scalarla”.

“Lei ha prodotto grandi vini in Italia e all’estero utilizzando tutti i vitigni internazionali ma anche tantissimi vitigni autoctoni, ma quale vino le è rimasto nel cuore?”

“Che cos’è il vitigno autoctono? Qualcuno dice che è un vitigno da 100 o 200 anni che sta in quella posizione, però all’epoca non era autoctono. Io ho un altro concetto: è autoctono quel vitigno che grazie alla scienza alla sperimentazione riesce meglio ad esprimere un territorio. Abbiamo anche vitigni autoctoni che purtroppo non esprimono e quindi come tali non saranno mai rappresentativi di quel territorio ma non per colpa del vitigno, è il territorio che non accoglie nel suo habitat quel tipo di uva. Se noi portassimo il Nebbiolo dal Piemonte in Veneto sarebbe un disastro, quindi noi dobbiamo caratterizzare ogni territorio con il suo vitigno a prescindere da dove venga questo vitigno”.

“Quindi, quale sarebbe il vino che le è rimasto più nel cuore?”

“Non ve lo dirò mai… perché sono tantissimi. Non dipende molto dal vino, dipende dall’ambiente dov’ero, anzi tre ambienti: là dove c’è povertà, sofferenza e miseria. San Patrignano, dolore; povertà, Palestina; miseria in diversi posti del mondo, paesi dell’est e America del Sud, dove il vino rappresenta veramente una rarità”.