5 Luglio 2017

Accordo CETA: in Italia aumentati del 15% gli sbarchi di grano duro

Con la prospettiva dell’accordo CETA sono aumentati del 15% gli sbarchi di grano duro del Paese nordamericano in Italia nei primi due mesi del 2017, con manovre speculative che stanno provocando la scomparsa della coltivazione in Italia. L'allarme è stato lanciato in occasione della mobilitazione di migliaia di agricoltori - tra cui tantissimi giovani imprenditori agricoli la cui mission è la tutela dei prodotti Made in Italy - che hanno invaso Piazza Montecitorio davanti al Parlamento dove è in corso la discussione per la ratifica del Trattato di libero scambio con il Canada. Accordo CETA, ovvero, un trattato che di fatto, spalanca le porte all’invasione di grano dal paese nordamericano. L’iniziativa #stopCETA è condivisa con un'inedita ed importante alleanza con altre organizzazioni (Cgil, Arci, Adusbef, Movimento Consumatori, Legambiente, Greenpeace, Slow Food, Federconsumatori e Fair Watch) che chiedono di fermare un trattato sbagliato e dannoso per l’Italia.

“La concorrenza sleale provocata dalle importazioni spacciate come tricolori, ha provocato il taglio dei prezzi pagati ai produttori agricoli sotto i costi di produzione, con la decimazione delle semine di grano che in Italia sono crollate del 7,3% per un totale di 100mila ettari raccolti in meno” ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel sottolineare che “in pericolo non ci sono solo la produzione di grano e la vita di oltre trecentomila aziende agricole che lo coltivano, ma anche un territorio di 2 milioni di ettari a rischio desertificazione e gli alti livelli qualitativi per i consumatori garantiti dalla produzione Made in Italy”. Oggi, con le quotazioni del grano a 24 centesimi al chilo, gli agricoltori italiani ne devono vendere più di 4 chili per poter acquistare un caffè. Una realtà che rischia di essere aggravata dall'approvazione dell'accordo CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) con il Canada, che prevede l’azzeramento strutturale dei dazi indipendentemente dagli andamenti di mercato. Circa la metà del grano importato dall’Italia arriva, infatti, proprio dal paese nordamericano dove le lobby in vista dell’accordo CETA sono già al lavoro contro l’introduzione in Italia dell’obbligo di indicazione della materia prima per la pasta previsto per decreto e trasmesso all’Unione Europea, trovando purtroppo terreno fertile anche in Italia. Una necessità per nascondere ai consumatori il fatto che già lo scorso anno sono arrivate in Italia oltre un milione di tonnellate dal Canada dove viene fatto un uso intensivo di glifosato nella fase di pre-raccolta per seccare e garantire artificialmente un livello proteico elevato, che è però vietato in Italia dal 22 agosto 2016, con l’entrata in vigore del decreto del Ministero della Salute, perché accusato di essere cancerogeno. In assenza dell’etichetta di origine, non è possibile conoscere un elemento di scelta determinante per le caratteristiche qualitative, ma si impedisce anche ai consumatori di sostenere le realtà produttive nazionali e, con esse, il lavoro e l’economia nazionali. L’81% dei consumatori italiani ritiene che la mancanza di etichettatura di origine nella pasta possa essere ingannevole secondo la consultazione pubblica on line sull'etichettatura dei prodotti agroalimentari condotta dal Ministero delle Politiche Agricole.

Per denunciarne i rischi gli agricoltori di Coldiretti hanno distribuito sacchetti di grano canadese con la scritta “"No al grano canadese con glifosato in preraccolta vietato in Italia". Un pericolo quindi anche per i consumatori visto che i cereali stranieri risultati irregolari per il contenuto di pesticidi sono praticamente il triplo di quelli nazionali, a conferma della maggiore qualità e sicurezza del Made in Italy, sulla base del rapporto sul controllo ufficiale sui residui di prodotti fitosanitari negli alimenti divulgato l’8 giugno 2017 dal Ministero della Salute. I campioni con un contenuto fuori legge di pesticidi - conclude la Coldiretti – sono pari allo 0,8% nel caso di cereali stranieri mentre la percentuale scende ad appena lo 0,3% nel caso di quelli di produzione nazionale.