23 Ottobre 2015

Etichetta: il 55% degli italiani mangia cibi scaduti, rischi a tavola

Italiani poco attenti all’etichetta quando si tratta di date di scadenza. Secondo un’analisi su dati Eurobarometro del settembre 2015, la maggioranza degli italiani (55%) mangia gli alimenti oltre il limite di tempo indicato nella confezione, se la stessa non è danneggiata e se il prodotto sembra comunque in buono stato. Emerge inoltre che solo il 32% li getta via e l’11% decide in base al tipo di alimento, mentre il 2% non risponde. In particolare, nel caso degli spaghetti, la percentuale degli italiani che li buttano nel bidone scende al 30%, mentre la stragrande maggioranza (70%) li porta in tavola dopo averne verificato le condizioni.

A guidare i comportamenti degli italiani è la scarsa conoscenza delle informazioni fornite in etichetta sulla scadenza dei prodotti, in particolare in merito al diverso significato tra da consumarsi preferibilmente entro il e da consumarsi entro. Per quest’ultimo termine, ben il 27% si comporta in maniera diversa in base al tipo di alimento, mentre il 20% ritiene erroneamente che il cibo possa essere consumato anche dopo la data indicata, ma potrebbe non essere al massimo della qualità.

La dicitura da consumarsi entro è la data entro cui il prodotto deve essere consumato e il termine oltre il quale un alimento non può più essere posto in commercio. Tale data di consumo non deve essere superata, altrimenti ci si può esporre a rischi importanti per la salute. Si applica ai prodotti preconfezionati, rapidamente deperibili, come il latte fresco (7 giorni) e le uova (28 giorni). È indicata dal giorno, il mese ed eventualmente l’anno e vale indicativamente per tutti i prodotti con una durabilità non superiore a 30 giorni.

Discorso diverso merita invece il Termine Minimo di Conservazione (TMC) riportato con la dicitura Da consumarsi preferibilmente entro, che indica la data fino alla quale il prodotto alimentare conserva le sue proprietà organolettiche e gustative, o nutrizionali specifiche in adeguate condizioni di conservazione, senza con questo comportare rischi per la salute in caso di superamento seppur limitato della stessa. Si sottolinea però che tanto più ci si allontana dalla data di superamento del TMC, tanto più vengono a mancare i requisiti di qualità del prodotto, quale sapore, odore, fragranza, ecc.

La durata viene stabilita autonomamente dagli stessi produttori, in base a una serie di fattori che vanno dal trattamento tecnologico alla qualità delle materie prime, dal tipo di lavorazione e di conservazione per finire con l’imballaggio. Per questo, non è difficile, durante un controllo commerciale, vedere due prodotti simili, ma di marchio differente, con un termine minimo di conservazione diverso. È infatti compito di ogni singola azienda effettuare prove di laboratorio sui propri prodotti, per misurare la crescita microbica e valutare dopo quanti giorni i valori organolettici e nutrizionali cominciano a modificarsi in modo sostanziale.

Il risultato è, ad esempio, che per l’olio d’oliva extra vergine alcune aziende  consigliano il consumo entro 12  mesi, altre superano i 18, con il rischio di perdere le caratteristiche nutrizionali e di gusto, secondo studi del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari e Microbiologiche dell’Università di Milano. Tali ricerche evidenziano come gli effetti del mancato rispetto dei tempi di scadenza variano da prodotto a prodotto: per lo yogurt, che dura 1 mese, il prolungamento di 10-20 giorni non altera l’alimento, ma riduce il numero dei microrganismi vivi, mentre al contrario per i pomodori pelati quasi tutte le confezioni riportano scadenze di 2 anni, anche se la qualità sensoriale è certamente migliore se si consumano prima.